IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa iscritta a ruolo il 26 marzo 1980 e segnata ai numeri 2004 ruolo generale, n. 650 ruolo della seconda sezione promossa da Fioravanti Umberto, nella qualita' di esercente la patria potesta' sulla figlia minore Fioravanti Silvia elettivamente domiciliato a Firenze, in via S. Reparata, n. 40, presso e nello studio dell'avv. Paolo Filippi, che lo rappresenta e difende come da procura a margine dell'atto di citazione, attore contro Meli Adriano elettivamente domiciliato a Firenze, in via Tornabuoni n. 4, presso e nello studio dell'avv. Alfredo Guidotti, che lo rappresenta e difende, unitamente all'avv. Vincenzo Brigidi, come da procura in calce alla copia notificata dell'atto di citazione, convenuto, Umberto Fioravanti, nella qualita' di genitore esercente la patria potesta' sulla figlia minorenne Silvia Fioravanti, autorizzato dal giudice istruttore a procedere a sequestro conservativo sui beni mobili e immobili di Adriano Meli, anche presso terzi, ha eseguito il sequestro del quinto dello stipendio del convenuto presso il Ministero del tesoro. In conseguenza dell'eccezione di nullita' proposta dall'esecutato per violazione del combinato disposto dell'art. 545 del c.p.c. e dell'art. 1 del d.P.R. 5 gennaio 1950, n. 180, l'attore ha dedotto l'illegittimita' cosituzionale del citato art. 1 in relazione all'art. 3 della Costituzione, nella parte in cui non prevede la pignorabilita' e la sequestrabilita', fino alla concorrenza di un quinto, degli stipendi, salari e retribuzioni corrisposti dallo Stato per ogni credito vantato nei confronti dei propri dipendenti. La questione e' indubbiamente rilevante ai fini della decisione sulla domanda di convalida del sequestro in quanto, ritenuta la sussistenza dei presupposti di legge per la concessione della misura cautelare, e' evidente che lo stesso potra' essere convalidato. La Corte costituzionale, che in precedenza si era gia' espressa in relazione alla legittimita' costituzionale dell'art. 1 (sentenza n. 88/1963) e dell'art. 2 del d.P.R. n. 180/1950 (sentenze n. 209 del 15 luglio 1975 e n. 49 del 16 marzo 1976), ritenendo infondate le questioni che le erano state sottoposte, recentemente ha in sostanza mutato il proprio orientamento e, con la sentenza del 31 marzo 1987, n. 89, ha dichiarato l'illegittimita' del primo comma, n. 3, dell'art. 2 per contrasto con l'art. 3 della Costituzione. Questa decisione, sia pur limitata alla pignorabilita' e la sequestrabilita' degli stipendi, dei salari e delle retribuzioni corrisposte da altri enti diversi dallo Stato, dalle aziende e dalle imprese di cui all'art. 1 del d.P.R. n. 180/1950, ha determinato un'inversione di tendenza della consulta della quale i giudici di merito non possono non tener conto nell'esaminare la questione di illegittimita' costituzionale anche dell'art. 1 del citato d.P.R. in riferimento agli impiegati dello Stato. Ed invero, non puo' non riconoscersi che la concezione sociologica e giuridica del pubblico impiego che ha sorretto le motivazioni con le quali la Corte costituzionale ha ritenuto infondate le questioni che in precedenza le erano state sottoposte e' oggi completamente superata nella coscienza sociale e, in gran parte, anche nell'attuale sistema normativo. A seguito del progressivo costante dilatarsi del settore pubblico ormai non residua alcuna distinzione ontologica tra il pubblico impiego e il rapporto lavorativo privato. Nei tempi attuali il pubblico impiego e' universalmente concepito come facente parte di un unico, piu' ampio concetto di rapporto di lavoro. Ed infatti, l'evoluzione sociale ha portato, per un verso, al sempre piu' evidente e generalizzato inquadramento sindacale anche dei pubblici dipendenti e, per l'altro verso, all'affermazione in favore di quasi tutti i comparti del pubblico impiego del diritto di sciopero. Con la conseguenza che il pubblico impiegato viene ormai visto come compreso nel generale, vasto ambito dei "lavoratori", in perfetta armonia con le precise indicazioni contenute nella Costituzione, ed i pubblici dipendenti, come quelli privati, hanno ricorso e ricorrono oggi allo sciopero per conseguire non soltanto miglioramenti economici ma anche "normativi". L'esercizio del diritto di sciopero, ed il connesso inquadramento in associazioni sindacali, sono gli indici piu' sicuri e significativi del mutamento contrattuale di fondo del rapporto di pubblico impiego, nel senso di rilevarne ed accentuarne l'intrinseca natura di rapporto di lavoro. Da cio' la progressiva perdita d'importanza dei caratteri differenziatori fra impiego pubblico e lavoro privato, posti dalla Corte costituzionale a corredo delle precedenti decisioni negative sulla legittimita' costituzionale della legge in discussione. Del resto, e' indiscutibile che nella determinazione della retribuzione dei pubblici impiegati abbia perso di rilievo la correlazione con i loro bisogni essenziali e che l'art. 36 della Costituzione riconosce anche a loro il diritto ad una retribuzione proporzionata alla qualita' e quantita' del lavoro prestato ed in ogni caso sufficiente ad assicurare un'esistenza libera e dignitosa. Piu' in generale, gli artt. 1 e 4 della Costituzione intendono il "lavoro" ed il "diritto al lavoro" in un'eccezione che non puo' ricomprendere anche il pubblico impiego e l'art. 35 della Costituzione il quale, nel tutelare il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni, si riferisce evidentemente anche ai dipendenti pubblici. La concezione unitaria del rapporto di lavoro, pubblico e privato, e' poi incontestabilmente dimostrata dalla previsione dell'art. 37 della legge 20 maggio 1970, n. 300, secondo il quale la normativa dettata dallo statuto dei diritti dei lavoratori non si applicano anche ai lavoratori del pubblico impiego soltanto se la materia sia diversamente regolata da norme speciali. Ritiene quindi il tribunale che le diversita' nella regolamentazione dei rispettivi status, determinati dalle oggettive differenze tra le rispettive condizioni di lavoro - e non si tratta certamente di differenze di particolare rilevanza - non sembrano rendere legittima, sotto il profilo costituzionale, qualunque differenza di trattamento legislativo, bensi' solo quelle che siano necessariamente connesse alle altrettanto necessarie diversita' di trattamento. Ogni diversita' di trattamento non giustificata dalle necessarie differenze oggettive nel modo di svolgimento del loro lavoro e dalle diverse finalita' per cui il lavoro stesso viene prestato fa si' che la categoria "favorita" lo sia per una "condizione personale e sociale" dei suoi componenti che e' puramente esteriore, quindi - a quanto pare - inidonea, per l'art. 3 della Costituzione, a giustificare quella diversita' di trattamento. Poiche' i lavoratori dipendenti, pubblici e privati, uguali socialmente e giuridicamente nei diritti fondamentali relativi alla loro condizione di "lavoratori", non possono non essere uguali anche nei doveri e nelle responsabilita' anche patrimoniali, in assoluta aderenza al principio sancito dall'art. 2 della Costituzione che richiede a tutti "l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarieta' politica, economica e sociale". Da questi doveri non e' certamente escluso quello di pagare i debiti rispondendo delle obbligazioni assunte con tutti i beni, presenti e futuri (art. 2740 del c.c.) esclusi soltanto quelli che "per tutti" sono dal legislatore ritenuti indispensabili alla salvaguardia dell'esistenza del debitore e della sua famiglia, nonche' della dignita' della sua persona. Cosi' che il pignoramento o il sequestro di una frazione della retribuzione del pubblico impiegato limitata al quinto, come previsto per i dipendenti privati, non sono certamente idonei a rendere impossibile lo svolgimento dell'attivita' con regolarita' e, soprattutto, ad impedire un'esistenza libera e dignitosa. La norma in discussione, pertanto, non sembra rispondere ne' ad un'esigenza di buon funzionamento della pubblica amministrazione ne', tanto meno, ad un'esigenza di giustizia ed il tribunale ritiene che l'eccezione di illegittimita' costituzionale non sia manifestamente infondata. Ne consegue che la decisione sulla domanda relativa alla convalida del sequestro conservativo deve essere sospesa rimettendosi gli atti alla Corte costituzionale come previsto dall'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87.